Pubblicato il 5 mar 2025 • 5 minuti di lettura
Caregiving e lavoro possono trasformare ogni giornata in una vera corsa a ostacoli. Si prova a tenere tutto sotto controllo, ma spesso il tempo sembra non bastare mai. Si entra in una routine fatta di impegni, incastri e responsabilità che non danno tregua. E il confine tra vita professionale e vita privata diventa sempre più sottile, fino quasi a scomparire. Gestire la cura di una persona cara mentre si lavora è un impegno profondo, che spesso richiede energie invisibili.
A volte sembra di non avere più spazio per se stessi. Ci si dimentica di come si sta, di cosa si prova davvero. Il lavoro chiede attenzione, la famiglia anche, e noi finiamo in mezzo, a cercare di fare il massimo, senza perdere pezzi. Manca un sostegno concreto, una rete che faccia sentire meno il peso. E quando non c’è, il rischio è di sentirsi sopraffatti, soli, svuotati.
Prendersi cura di chi si ama è un gesto nobile, ma non dovrebbe costare la propria salute. Si può cercare un equilibrio diverso, che metta al centro anche il nostro benessere. Perché star bene non è un lusso: è una condizione necessaria per riuscire a reggere tutto il resto.
Quando si vive tra caregiving e lavoro, la gestione del tempo diventa una delle sfide più grandi. Le giornate iniziano presto e finiscono tardi, con la sensazione costante di essere in ritardo su tutto. Ogni ora è già prenotata da qualche impegno: una riunione, una visita medica, una telefonata urgente. La testa corre in continuazione, e spesso non si riesce nemmeno a capire dove finisce una cosa e inizia l’altra. Si va avanti per automatismi, cercando di incastrare tutto, senza pause vere.
La stanchezza non è solo fisica. A pesare davvero è l’energia mentale che il doppio ruolo richiede ogni giorno. Anche quando si è presenti al lavoro, la mente spesso è altrove. Ci si preoccupa per chi si ha a casa, si fanno piani mentali, si cercano soluzioni. Questo continuo passaggio da un pensiero all’altro toglie lucidità, rende più difficile concentrarsi, aumenta il rischio di errori. Non è distrazione, è sovraccarico. E alla lunga, logora.
Una delle cose più difficili da affrontare è la sensazione di vivere tutto in solitudine. Non sempre si riesce a raccontare quello che si sta passando, per paura di non essere capiti o di sembrare fragili. Così si tace, si stringono i denti, si finge che vada tutto bene. Ma tenere tutto dentro non aiuta. Anzi, alimenta il senso di isolamento. Condividere le difficoltà, anche solo con una persona di fiducia, può alleggerire enormemente il peso. Nessuno dovrebbe portare tutto sulle spalle da solo.
Affrontare ogni giorno il bilanciamento tra caregiving e lavoro richiede uno sforzo costante. Quando manca la flessibilità, tutto diventa più complicato. Avere la possibilità di gestire gli orari, lavorare da remoto o riorganizzare le scadenze fa la differenza. Non si tratta solo di comodità, ma di necessità. Sapere che si può accompagnare un familiare a una visita, senza dover giustificarsi mille volte, restituisce un minimo di respiro. La flessibilità non risolve tutto, ma aiuta a non perdere il controllo.
Un vero sostegno aziendale non si limita agli strumenti pratici. Riguarda anche l’aspetto umano. Essere visti, ascoltati, riconosciuti nel proprio ruolo di caregiver ha un impatto enorme. Non si cerca compassione, ma comprensione. Quando il proprio carico viene validato, il peso emotivo si alleggerisce. Sapere che ci si può aprire, anche solo con un collega o un responsabile, fa sentire meno soli. Non si è più invisibili. E questo ha un effetto diretto anche sul benessere mentale.
Alcune realtà offrono servizi concreti: giorni di permesso dedicati, supporto psicologico, consulenze sanitarie, convenzioni con strutture. Sono strumenti preziosi, che permettono di rifiatare. Anche solo sapere che ci sono opzioni disponibili cambia il modo in cui si affrontano le giornate. Non si è costretti a fare tutto da soli. E questo non è un favore, ma un diritto. Perché quando si sta meglio, si riesce a lavorare con più serenità. E soprattutto, si vive con meno fatica.
Lo stress da assistenza non arriva all’improvviso. Si insinua piano, finché non diventa parte della quotidianità. A volte si avverte sotto forma di mal di testa continui, disturbi del sonno, tensione muscolare. Altre volte si manifesta con irritabilità, difficoltà a concentrarsi, vuoti di memoria. Il corpo manda segnali chiari, ma spesso si ignorano. Si va avanti a testa bassa, convinti che basti tenere duro. In realtà, ascoltarsi è già un primo gesto di cura.
Arriva un momento in cui anche le cose semplici sembrano insormontabili. Ci si sveglia senza forze, con la sensazione di non riuscire a gestire nulla. Non è debolezza, è il risultato di un carico emotivo troppo grande, mantenuto troppo a lungo. La stanchezza diventa esaurimento. Il lavoro pesa, la cura pesa, e non si riesce più a distinguere dove finisce uno e inizia l’altro. Riconoscere questa condizione è fondamentale per evitare di crollare.
In una società che spinge sempre a fare, chiedere una pausa può sembrare una sconfitta. Ma non lo è. Fermarsi non vuol dire mollare, vuol dire scegliere di prendersi sul serio. Nessuno può dare il massimo se si sente svuotato. Lo stress da assistenza non è un dettaglio trascurabile: è qualcosa che condiziona profondamente ogni ambito della vita. Si ha il diritto di rallentare, di chiedere supporto, di non dover essere sempre all’altezza. Prendersi cura di sé è parte del prendersi cura degli altri.
Quando si vive in equilibrio instabile tra caregiving e lavoro, le emozioni tendono a passare in secondo piano. Si tiene duro, si stringono i denti, si va avanti. Ma dentro, qualcosa si muove: frustrazione, tristezza, senso di colpa, rabbia. Soffocare tutto non funziona. Le emozioni hanno bisogno di uno spazio per essere viste, riconosciute, ascoltate. Il supporto psicologico può offrire proprio questo: un luogo dove poter essere autentici, senza filtri.
Parlare con una persona esperta permette di dare ordine ai pensieri. Spesso si sottovaluta quanto sia importante avere un punto di vista esterno, neutro e accogliente. Lo psicologo non risolve i problemi, ma aiuta a guardarli da un’altra angolazione. Aiuta a non sentirsi sbagliati, a riconoscere i propri limiti, a trovare strumenti nuovi. E in quel tempo dedicato solo a sé, si recupera un po’ di respiro, un po’ di lucidità.
Chi si occupa degli altri spesso dimentica di occuparsi di sé. Si pensa che basti resistere, che il proprio malessere non sia una priorità. Ma è il contrario. Non si può reggere a lungo senza fermarsi mai. Il supporto psicologico non è un lusso né un’emergenza: è prevenzione. È un modo per prendersi cura di chi ogni giorno si fa carico della vita altrui. Volersi bene non è egoismo, è equilibrio. E senza equilibrio, tutto il resto diventa più difficile da sostenere.
Vivere tra caregiving e lavoro è un’esperienza complessa, che richiede presenza, forza e tanta energia. Spesso ci si sente divisi, in affanno, come se nessuna parte della giornata fosse davvero nostra. Ma non dev’essere per forza così. Si può costruire un nuovo equilibrio, in cui il benessere personale abbia finalmente spazio. Si può chiedere aiuto, condividere il peso, accedere a risorse pensate per chi affronta tutto questo ogni giorno.
Non esiste una formula perfetta, ma esiste la possibilità di fare un passo alla volta, verso una gestione più umana. Nessuno dovrebbe sacrificare la propria salute per riuscire a stare dietro a tutto. E il primo passo è riconoscere che prendersi cura di sé non è un lusso, ma un diritto. Sostenersi, darsi ascolto e valorizzare ogni piccolo miglioramento può cambiare davvero il modo in cui si affronta la quotidianità.
Autore
Articolo scritto da
Ti è piaciuto l’articolo?
Redazione Fitprime
Benessere mentale
Redazione Fitprime
Benessere mentale
Redazione Fitprime
Benessere mentale