Pubblicato il 1 feb 2023 • 4 minuti di lettura
Per salvaguardare il know how aziendale il datore di lavoro può mettere in atto un’azione di fidelizzazione del personale, ad esempio attraverso una serie di incentivi. Spesso, però, essi non bastano e capita di perdere le risorse migliori a vantaggio di un diretto concorrente.
Per far sì che il dipendente non divulghi le informazioni apprese durante il rapporto lavorativo esiste il patto di non concorrenza.
In questo articolo approfondiamo in cosa consista tale strumento giuridico.
L’articolo 2015 del Codice Civile italiano prevede che il datore di lavoro abbia la possibilità di pattuire un accordo di non concorrenza, con il quale il dipendente si impegna a non lavorare per una società concorrente, per un certo periodo di tempo dopo aver lasciato l’azienda. Inoltre gli vengono imposti dei limiti finalizzati al non divulgare le attività e le informazioni apprese durante il rapporto lavorativo.
E’ necessario che l’accordo abbia forma scritta e può essere contenuto nel contratto di assunzione o in un documento privato separato.
Il patto di non concorrenza deve esprimere in modo chiaro quali attività professionali il lavoratore non può esercitare a conclusione del rapporto lavorativo, ma anche l’ambito geografico specifico. Sono validi gli accordi che prevedono come limite geografico il territorio nazionale in modo integrale, nella misura in cui il dipendente sia in grado di trovare una nuova occupazione sulla base del suo ruolo professionale.Il lavoratore che rispetta il patto di non concorrenza viene retribuito e tale retribuzione deve essere indicata in busta paga. La somma prevista costituisce una voce distinta e diversa da quelle già previste all’interno del contratto. La frequenza del pagamento può essere pattuita da entrambe le parti.
Il patto di non concorrenza è ammissibile anche nei contratti di lavoro a tempo indeterminato.
Affinché sussista, il patto di non concorrenza deve essere concordato da entrambe le parti: il datore di lavoro ed il dipendente.
Nel momento in cui il lavoratore accetta il patto si impegna a non svolgere attività concorrenziale al termine del rapporto lavorativo e non divulgare le informazioni apprese durante di esso, tra cui:
All’interno del patto di non concorrenza, il lavoratore potrebbe anche avere come limite quello di non poter essere assunto presso aziende che svolgono un’attività simile a quella di cui è dipendente. Se un lavoratore non sottostà al patto di concorrenza, il datore di lavoro può anche decidere di interrompere il rapporto lavorativo. Mentre se il dipendente non riceve dal datore di lavoro la somma relativa al compenso economico concordato nel patto, ha il diritto di rivolgersi ad un Giudice.
Inoltre la Giurisprudenza italiana, che tutela costituzionalmente i diritti dei lavoratori, stabilisce che i limiti previsti dal patto non possono precludere al dipendente la possibilità di trovare un nuovo impiego.
Al termine del contratto lavorativo, il patto di non concorrenza deve comunque garantire al dipendente la capacità redditizia, ovvero la possibilità di assicurarsi un guadagno idoneo che risponda alle sue esigenze di vita.
La durata del patto di non concorrenza corrisponde a 3 anni per i lavoratori subordinati e a 5 anni per i dirigenti. La legge ai sensi dell’art.1419, comma 2 c.c. riduce i limiti massimi, nel caso in cui venisse pattuita una durata superiore.
Ricordiamo che la durata del patto di non concorrenza è strettamente legata alla durata del contratto lavorativo. Se un rapporto di lavoro si conclude in modo anticipato per volontà del datore di lavoro, nel periodo successivo alla cessazione del contratto, l’eventuale patto di non concorrenza potrebbe essere ritenuto non valido. Ecco perché è opportuno accordare anticipatamente una gradualità del vincolo, che sia connessa alla durata del contratto e alle motivazioni di una sua possibile interruzione.
Il patto di non concorrenza deve essere sempre retribuito con un corrispettivo congruo per il lavoratore che lo sottoscrive.
Il compenso economico concordato corrisponde ad un elemento distinto rispetto allo stipendio standard, ma nonostante ciò assume rilevanza, in termini di imponibilità contributiva, quando è erogato mensilmente ed in modo costante per tutta la durata del rapporto lavorativo. Può essere collegato al Trattamento di fine rapporto (TFR). Si tratta dell’importo accumulato dalle aziende, per ciascun lavoratore, durante tutta la durata del contratto di lavoro e che deve essere erogato al termine di esso.
In alcuni casi se il dipendente viola il patto di non concorrenza, il datore di lavoro può trattenere parte o tutto l’importo accumulato per il TFR.
Nel caso in cui il compenso economico stabilito con il patto di non concorrenza sia erogato al dipendente al momento della cessazione del rapporto lavorativo, sarà assoggettato al medesimo regime fiscale di tassazione separata dal TFR e sottratto agli obblighi contributivi.
Il patto di non concorrenza può essere retribuito al lavoratore tramite una quota fissa o come una percentuale della retribuzione. Il corrispettivo deve sempre essere commisurato al sacrificio richiesto al lavoratore, alla sua retribuzione e al suo livello professionale. Bisogna prendere in considerazione anche l’ampiezza territoriale entro cui si applica il patto e la sua durata.
Il corrispettivo minimo per il lavoratore è intorno al 20-30% della sua retribuzione lorda annua.
Secondo l’art. 2125 del Codice Civile italiano, un patto di non concorrenza è nullo quando non risulta nessun atto scritto e quando pone al dipendente troppi limiti in termini di durata, territorialità e raggio di azione.
Inoltre viene annullato se impedisce al dipendente di esercitare la propria professione. Per essere valido il patto di non concorrenza deve essere proporzionato al concreto interesse aziendale di proteggere gli interessi dell’impresa.
Il patto di non concorrenza è nullo anche quando non prevede un corrispettivo economico al lavoratore o quando tale corrispettivo non è congruo al sacrificio ad esso imposto.
Il patto di non concorrenza può essere firmato in due diversi momenti: al momento dell’assunzione o al momento della conclusione del rapporto lavorativo. Per essere valido deve essere firmato da ambo le parti: il datore di lavoro ed il dipendente.
Ci sono dei casi in cui può essere stipulato anche a posteriori, come ad esempio se si conclude una specifica attività.
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